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«Kabul, la politica ha fallito» intervista al’ex inviato della Farnesina De Maio

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Lettera43, di Barbara Ciolli, 20 settembre 2012
 
L’INTERVISTA
«Kabul, la politica ha fallito»
L’ex inviato della Farnesina De Maio.
 
Dopo l’annuncio del ritiro completo dei circa 130 mila uomini entro il 2014, nel settembre 2012 la Nato ha dimezzato le operazioni congiunte con le forze afghane, e gli Stati Uniti hanno interrotto l’addestramento della polizia locale e delle unità di forze speciali, per sottoporre le reclute ad «accurati controlli».
Ci sono stati troppi infiltrati e troppi morti tra i soldati in missione – soltanto tra il 15 e il 16 settembre sei militari uccisi, 51 in tutto l’anno – per fidarsi delle forze afghane che gli Usa e gli alleati atlantici si erano impegnati a formare, anche dopo la loro uscita dal teatro di guerra.
 
LA NATO SULLA DIFENSIVA.

Sembra l’ennesimo fallimento della missione internazionale Isaf: dopo aver rinunciato a vincere la guerra al terrorismo e pacificare il Paese, i contingenti non riescono neppure a mandare avanti i programmi di addestramento.
Con la crisi, Spagna e Italia hanno tagliato i budget per Kabul. E anche il «tentativo degli Usa di trattare con i talebani», ha confermato a Lettera43.it l’ex inviato del governo italiano in Afghanistan e ambasciatore in Pakistan Enrico De Maio, «con un negoziato di basso spessore non è andato da nessuna parte».
 
IL VUOTO POLITICO-DIPLOMATICO.

Tuttavia, ha raccontato l’alto funzionario, il vero fallimento internazionale della missione è un altro. «Sul piano militare, tenendo conto delle difficoltà di un terreno ostile, sono stati fatti dei progressi. Non sul piano politico-diplomatico».
È questo il grande vacuum che, di anno in anno, alimenta gli insorti e l’asfissia della palude afghana. Una palude sempre più «scollegata dal suo naturale contesto asiatico e ancorata agli interessi particolari dei potentati stranieri». Per uscire dal pantano, secondo De Maio, bisogna ripartire proprio dai Paesi del resto dell’area.
 
Come si esce dall’Afghanistan senza che per la Nato sia una resa pressoché incondizionata?
Per restituire identità e stabilità all’Afghanistan occorreva mandare avanti, in questi 10 anni, oltre alle operazioni militari e di sicurezza, un serio lavoro politico-diplomatico. Con un approccio multilaterale e non bilaterale, come invece è avvenuto.
 
Lei parla sempre di contesto asiatico. Perché?
Non si può pacificare il Paese, se prima non si correggono le storture con il Pakistan, legato a triplo filo con Kabul. Per questo è necessario coinvolgere l’India, che, come l’Afghanistan, in Kashmir ha una frontiera inesistente con i pachistani.
 
È una tela molto più complessa dello schema finora adottato.
L’Afghanistan appartiene all’Asia, non agli Stati Uniti o all’Europa. E i nodi da sciogliere nella regione sono molti, a partire dall’influenza dei militari corrotti e dei sofisticati servizi segreti di Islamabad in contatto con la rete talebana. Che a Quetta, in Pakistan, ha il suo stato maggiore.
 
Ma i rapporti tra Washington e Islamabad non sono mai stati così tesi come dall’uccisione di Osama bin Laden.
I potenti 007 dell’Isi e la casta militare pachistana si nutrono dell’instabilità afghana per ricevere smisurati aiuti militari ed economici, in modo da far ingrassare le loro lobby.
Così alimentano all’infinito il doppio gioco. Si torna al punto di partenza: come uscirne?
Allargando il tavolo all’India, diventata la migliore amica dell’Afghanistan: ha buone relazioni con gli Usa e dovrebbe avere interesse a risolvere i contenziosi con il Pakistan. Inoltre occorrerebbe aprire alla Russia, nello Stato cerniera dell’Uzbekistan. Invece che pensare a riaprirvi una base americana.
 
Insomma, è stato sbagliato tutto?
Si associa sempre l’Iraq all’Afghanistan. Nel caso di Kabul, però, la sconfitta è innanzitutto politica, non militare. Il vuoto è stato soprattutto diplomatico.
 
Non crede che la Nato abbia fallito in Afghanistan?
Gli incidenti mortali hanno pesato. Qualsiasi generale avrebbe disposto uno stop all’addestramento degli afghani dopo l’escalation di attentati. Ma le operazioni continuano per oltre 350 mila uomini tra afghani dell’esercito e della polizia nazionale: è comunque un risultato.
 
Negli Stati Uniti il dibattito sulle missioni si è riacceso, proprio in campagna elettorale. Si usa lo stop in Afghanistan in chiave propagandistica?
Di certo lo stop avrà ripercussioni sull’opinione pubblica statunitense. Ma i cittadini di certo possono sindacare sull’ambigua diffusione del video antislamico che ha riacceso la polveriera, non sulla reazione difensiva e prevedibile, dei militari.
 
Le forze internazionali sembrano messe sempre più in difficoltà dai talebani.
Il problema non sono le ambizioni di potere dei talebani, stimati in poche decine di migliaia: una forza molto inferiore al nuovo esercito regolare. Il problema sono la tradizionale ostilità verso gli stranieri degli afghani e la loro povertà,
sfruttate dai talebani e da chi sta dietro di loro.
 
Invece Washington contava anche sui talebani per sciogliere la matassa afghana. Un anno fa si intavolavano trattative.
Ma è stato un buco nell’acqua, un negoziato superficiale. In gioco c’era solo la liberazione di alcuni detenuti di Guantanamo e gli incontri con gli Usa presto si sono interrotti.
 
Giovedì, 20 Settembre 2012

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