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Continua il “progetto vite preziose”: un futuro per Fahema e Shogofa

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Altre donne hanno trovato aiuto dai nostri lettori nelle ultime due settimane.

Articolo di Cristiana Cella – L’UNITA’

Fahema ha adesso un altro sponsor, Angela, che, insieme a Maria, si occuperà di lei. Potrà curarsi e avviare un lavoro a casa dei fratelli.

Shogofa è sempre nella casa protetta, le condizioni della sua famiglia non sono cambiate. Non può sposare il ragazzo di cui è innamorata per le minacce del padre. Lo ucciderà, se la figlia oserà sposarlo contro la sua volontà. Vuole che Shogofa torni a casa per mendicare insieme alla matrigna e portare soldi a casa. I galli non bastano più. Probabilmente cercherebbe anche di farla sposare a chi può pagarlo bene. Con il sostegno di Cristina e Alessandra potrà aiutare la famiglia anche senza mendicare. E potrà avviare un lavoro per lei e per il suo innamorato. In questo caso, Shogofa ci crede davvero, il padre non farebbe più opposizione e il suo sogno d’amore potrebbe avere un lieto fine.

Behnaz con l’aiuto di Annalisa, potrà curarsi e mantenersi a casa del padre con le figlie, sfuggendo quindi al ricatto del cognato che vuole obbligarla a sposarlo.

Hawca troverà per lei un lavoro, nel suo villaggio, comprando una mucca o delle capre oppure avviando un’attività di cucito. I suoi problemi psicologici saranno certamente migliorati dalle medicine che adesso si potrà comprare ma anche dalla speranza di una nuova vita, libera dal ricatto che la soffoca.

Shahzadar aspetta ancora uno sponsor e le sue condizioni non sono cambiate.

LE NUOVE STORIE. COSA CI RACCONTANO
Ero pronta a pubblicare le storie raccolte nei mesi scorsi quando Hawca mi ha scritto da Kabul pregandomi di dare la precedenza a quattro donne e bambine che hanno chiesto aiuto al Centro Legale la scorsa settimana. I loro problemi, simili, sono estremi e molto urgenti e hanno tutti a che fare con la difficoltà di accesso alle cure mediche per le donne. I dati delle organizzazioni umanitarie internazionali sono tragici ma sono sempre solo dei numeri. Ascoltando la voce di queste donne entriamo direttamente nella loro vita e capiamo davvero, anzi, “sentiamo” che cosa significa.

Le donne afgane colpite da depressione, o da altri disturbi psichici, tra i 15 e i 40 anni, sono circa due milioni. Di questo ci parlano due delle nostre storie. Ci raccontano di quando la violenza diventa intollerabile, di quando qualcosa si spezza nella forza di resistenza necessaria a vivere. I drammi di queste donne si consumano dentro le loro case, anche in quelle della capitale, dove, nei quartieri più ricchi, si vedono anche ragazzine sorridenti con i libri sotto il braccio. Dentro molte delle case che si arrampicano sulle colline di Kabul o nei villaggi più sperduti, la sofferenza prosegue il suo cammino implacabile, nell’indifferenza e devasta la mente delle persone più fragili.

L’isolamento, la solitudine, l’impotenza nascondono, come i muri delle case. Le donne che si raccontano oggi hanno trovato il coraggio di rompere questo silenzio e hanno chiesto aiuto.

CURARSI IN AFGHANISTAN
Curarsi, per malattie del corpo o della mente, per le donne è molto difficile. Prima di tutto perché dipendono completamente dal marito o da un parente maschio. Non hanno la possibilità di muoversi autonomamente e devono essere portate dal medico o in ospedale, da un uomo della famiglia. Che spesso è causa dei loro mali e non ne ha nessuna intenzione. In secondo luogo, le medicine costano e chi sopravvive a stento non se le può permettere. O, anche potendo, non vuole comprarle per le donne della famiglia. Non ne vale la pena. Andare a mendicare sembra sia l’unico modo lasciato alle donne per trovare il denaro per curarsi.

Chiedo a Simin Sultani, che lavora con Hawca e si occupa delle nostre storie, qual è adesso la situazione sanitaria in Afghanistan. «Le principali città del paese hanno almeno un ospedale pubblico. Secondo la nostra Costituzione le cure mediche dovrebbero essere accessibili e gratuite per la popolazione senza discriminazioni. Il primo problema è che il livello delle cure in questi ospedali è molto basso. Non ci sono medicine gratuite, né letti sufficienti. Non c’è abbastanza personale medico né attrezzature. E la preparazione dei medici è scarsa. Nella Kabul Medical University, i testi su cui si studia sono vecchi di 30 anni. Non c’è assicurazione sanitaria e ogni cittadino alla fine deve pagare di tasca sua. Ci sono molti ospedali privati con personale straniero, in particolare dal Pakistan, India, Turchia e Tajikistan, che sono ancora più costosi. Ma certamente i medici più preparati non vengono qui a rischiare la vita. A volte succede che infermieri, che non trovano lavoro nel loro paese, siano assunti negli ospedali afghani come medici specialisti. Le medicine che arrivano dall’estero non sono sottoposte a nessun controllo e spesso sono di bassa qualità o scadute. In pratica questo significa che la gente muore per malattie curabili, soprattutto donne e bambini.

Ad esempio, secondo le Nazioni Unite, l’Afghanistan è al secondo posto al mondo come mortalità materna: 1900 morti su 100.000 nascite regolari. 25.000 donne, ogni anno, muoiono per le complicazioni legate alla gravidanza o al parto. L’aspettativa di vita per le donne è di 44 anni».

Questo ci spiega le difficoltà di Deba, Nahida, Homa e Nahima. Ecco le loro storie.

NAHIMA – 30 ANNI- KABUL
Nahima non potrà mai dimenticare quel giorno. Lo ha sempre davanti agli occhi come fosse adesso, così dice. Sono una famiglia povera ma felice, non hanno di che lamentarsi. Due sorelle e un fratello grande, l’unico maschio, adorato da tutti, specialmente dal padre. Poi arriva la guerra civile. Nahima ha 15 anni. E’ il tempo buio in cui un uragano di bombe e razzi si abbatte ogni giorno sulla città. Quando non si sa se il giorno dopo si sarà ancora vivi. Quando è un rischio mortale uscire a comprare cibo o andare a scuola. Eppure Nahima continua ad andarci, è troppo importante per lei. Quel giorno, torna a casa dopo le lezioni. Percorre la sua strada, guardinga, veloce. Capisce subito che qualcosa è successo. I vicini escono dalle case e le vengono incontro gridando e piangendo: il fratello amatissimo è stato ammazzato in mezzo alla strada poche ore prima. Succede spesso in questi anni feroci ma questa volta è successo alla sua famiglia, a lei. Dopo la morte dell’unico figlio maschio, tutto precipita. Il padre si incattivisce. Non sopporta più la presenza della moglie che non ha più maschi da dargli. Né quella delle tre figlie femmine. Si risposa e il loro posto nella famiglia svanisce. Le due sorelle maggiori si sposano, o meglio vengono vendute in matrimonio, Nahima rimane sola con la madre.

Il padre e la nuova moglie le tollerano appena, in una stanza della casa. Ma non le danno da mangiare, il padre non se ne occupa. Anzi. Inizia a picchiarle entrambe, spesso su ordine della moglie. Per Nahima è troppo. La sua mente non regge più. La violenza del padre le scatena frequenti crisi: urla, insulta, grida senza potersi fermare. E picchia la madre, l’unica, forse, sulla quale può sfogare la sua rabbia. La settimana scorsa Nahima ha perso completamente il controllo. Ha rotto una gamba alla madre e il padre l’ha picchiata perché fa sempre tutto quella confusione in casa. La madre non è più in grado di controllarla né di lavorare. Faceva le pulizie nelle case, ma adesso è vecchia, e non può mai lasciare sola la figlia. Da qualche giorno Nahima è incatenata in casa sua.

Eppure curarla è possibile, ha detto il medico, ma deve prendere le medicine con regolarità. E le medicine costano. Nessuno le può pagare.

PROGETTO PER NAHIMA Ha bisogno di aiuto per curarsi e per sopravvivere insieme alla madre. Magari, con un po’ di autonomia economica, potrebbero anche lasciare la casa del padre e vivere in pace.

DEBA- 17 ANNI- KABUL
Mia figlia Deba ha adesso 17 anni. Ne aveva solo cinque quando suo padre è morto. Mio marito è stato ucciso nella guerra civile contro i talebani. Da allora le cose non sono andate bene. La vita di una vedova è molto difficile qui. Viviamo, io e due figlie, nella casa di mio cognato, qui a Kabul. Ci affitta una stanza in casa sua ma non ha mezzi per mantenere anche noi. Così cerchiamo di arrangiarci. Io vado in giro per il quartiere, raccolgo i panni sporchi e li lavo. In questo modo posso pagare la stanza e la nostra sopravvivenza. Deba ha cercato in tutti i modi di aiutarmi ma lo zio non le permette di uscire di casa per lavorare con me o per trovare qualcos’altro che ci sostenga. Ha sofferto molto di questa situazione e adesso ha dei grossi problemi psicologici. Spesso, in casa, per strada, dovunque si trovi, cade per terra, grida, piange. Sono due anni che ha queste crisi. Dovrebbe essere curata e prendere delle medicine ma io non posso permettermelo e non abbiamo parenti che ci possano aiutare. Devo fare qualcosa per Deba, questo me lo dico ogni giorno. Ma cosa? Pregare, certo, questo lo faccio. E mendicare per le strade di Kabul, come molte altre vedove nelle mie condizioni. E’ l’unico modo per trovare i soldi per le cure di cui mia figlia ha bisogno. Ma sono ancora giovane e mi vergogno. Chiedere i soldi per la strada mi fa sentire senza dignità e poi gli uomini non ti trattano bene. Se Deba stesse meglio, se avessimo un aiuto, potrebbe iniziare qualche lavoretto a casa e le cose andrebbero meglio. E’ questo il mio pensiero ogni mattina quando mi sveglio.

PROGETTO PER DEBA
Deba ha bisogno di aiuto per curare i suoi gravi problemi psicologici. In un secondo tempo, potrebbe avviare qualche lavoro a casa, per aiutare la madre e poter vivere meglio.

HOMA – 45 ANNI- KABUL
Mio marito è stato ucciso nella guerra civile e io e mia figlia siamo rimaste sole. Non abbiamo una famiglia che ci possa aiutare. Un parente di mio marito ci affitta una stanza nella sua casa e, per sopravvivere, io vado a pulire una scuola. Quello che mi danno mi basta appena per pagare la stanza, mangiare e far andare mia figlia a scuola. Il problema è che sono malata, ho una grave forma di epatite e non ho i soldi per curarmi. Ho paura per mia figlia, per il suo futuro. Ho paura che si ammali anche lei. Se si ammalasse non avrei altra scelta che mendicare per trovare i soldi per le medicine. Ho paura di non farcela più a lavorare, o di lasciarla sola. Senza di me, che farebbe della sua vita? Tanto vale farla finita subito. Io e lei insieme. Questo pensiero non mi abbandona mai. Un attimo e tutto sarebbe finito. Ma poi qualcosa mi spinge ad andare avanti. Adesso sono riuscita a chiedere aiuto. E’ già qualcosa.

PROGETTO PER HOMA
Homa ha bisogno di aiuto urgente per curarsi l’epatite, finché ha ancora speranza di guarire, e per migliorare le condizioni di vita sua e della figlia. Perché possa continuare ad andare a scuola.

NAHIDA- 6 ANNI. HERAT.
Nahida ha due sorelle più piccole e un fratello di 8 anni. Siamo una famiglia povera ma fino a un anno fa ce la facevamo a vivere decentemente. Poi c’è stato quell’attacco suicida, uno dei tanti. Ma quel giorno c’era anche mio marito. Ha perso i piedi e le mani e non può più lavorare. Sono io a mantenere la famiglia, faccio il bucato per i vicini. Ma Nahida è la mia preoccupazione più grande. Ha un‘infezione alle orecchie che ha attaccato anche l’osso. Quando mio marito stava bene, ha cercato di curarla. Il medico ha detto che deve essere operata al più presto altrimenti sarà sorda per sempre e avrà problemi anche con la gola. Ma i soldi adesso non ci sono per curarla. L’unico modo per trovarli è andare a mendicare. A volte, i problemi che ho sulle spalle mi sembrano troppi e mi manca il coraggio.

PROGETTO PER NAHIDA
Nahida ha bisogno di aiuto per operarsi e curare la sua infezione. Così sua madre potrà evitare di mendicare e potranno migliorare le loro condizioni di vita.

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