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Afghanistan, l’inferno delle donne: ogni anno 2300 suicidi

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di Cristiana Cella
l’Unità 3 Agosto

Un burka di fiamme. È la scelta finale per 2300 donne afghane, ogni anno, tra i 15 e i 40 anni. I casi di suicidio, come «risorsa estrema di fronte a violenze subite» continuano a crescere. Lo ha detto, a Kabul, Faizullah Kakar, consigliere per le questioni della Salute del presidente Hamid Karzai. Chi non arriva in ospedale è fuori dal conto. Secondo i medici, per il 70% delle donne ricoverate è troppo tardi.
Per Jamila no, è sopravvissuta. Nella famiglia del marito la picchiano tutti. Sopporta, per anni. Ma quel giorno la paura le chiude il respiro. Deve confessare la sua colpa: ha perso 20 afghani al bazar. Aspetta, qualche secondo, interminabile, di ferro. Il primo colpo arriva dal suocero e le fa perdere i sensi. Poi seguono gli altri. Sembra che provino soddisfazione. La notte non può dormire per il dolore. La solitudine fa ancora più male. Tutto è, di colpo, intollerabile. Come può Dio volere una cosa simile? È lei la colpevole, non può essere che così. Di non essere una brava moglie, una brava madre, o forse solo di essere una donna. Basta. Sa cosa fare adesso. Nella prigione-cucina c’è tutto quello che serve. È facile, come un gesto quotidiano. Il kerosene lo maneggia ogni giorno. È un attimo versarselo addosso. Il rumore del fiammifero. I pensieri per il figlio, per come poteva essere la vita. È tardi. Corre gridando, per la stanza, con il fuoco addosso.

 

Finirà, deve finire, presto. Ma qualcuno interviene. Le fiamme sono spente in tempo. È viva adesso, ma non è più lei , non si riconosce nello specchio dell’ospedale. Oggi non lo farebbe più, dice. Avrebbe dovuto trovare un’altra soluzione. Quale?
Le vie di scampo sono poche. Il tunnel comincia con il matrimonio forzato (dal 60 all’80% ). La ragazza è un bene da vendere, da scambiare. Più sono piccole e peggio è. Tra i 10 e i 14 anni le bambine costrette al matrimonio subiscono più facilmente violenza sessuale (per il 33%), e violenza fisica (62%). Nella casa è, per molte, la quotidianità. La maggioranza non sa nemmeno che è un crimine. Lo stupro nel matrimonio non è considerato, fuori dal matrimonio è un disonore che ricade sulla vittima, colpevole di adulterio. L’impunità è quasi totale.
Perfino Karzai ha perdonato ufficialmente due stupratori nel 2009. I colpevoli di violenza sono più spesso assolti che puniti, il 39% degli impuniti ha complicità politiche. Il tunnel continua con la solitudine. Depressione e follia trasformano i pensieri, colpiscono più di 2 milioni di donne, secondo il rapporto di Kakar. Per molte il rifugio è nella droga. Non sanno a chi chiedere aiuto, non lo cercano nemmeno. Subiscono. Hanno paura, sempre, di nuovo.

Nessuna giustizia
Paura degli abusi e delle violenze della polizia, paura di viaggiare da sole in cerca di un aiuto che, molto probabilmente, non verrà. Paura delle ritorsioni degli aggressori e delle loro famiglie. La legge rimane sulle carte del Parlamento. Non le protegge. Per una donna è rarissimo ottenere giustizia. Più facilmente sono loro a essere perseguitate. Le carceri sono piene di donne che scontano pene per «delitti morali». Su 70 donne incarcerate, il 30% è punito per adulterio, il 24% per la fuga dal tetto coniugale. La fine del tunnel non si vede.
Il nemico si annida nella mente, si mangia l’anima, colpisce con la vergogna, la colpa, l’autopunizione. Se non c’è una ragione, una risposta, se tutti sono d’accordo, se non si può contare su nessuno, l’uscita dal tunnel è lì, in cucina, nella tanica del kerosene.

I rischi per le parlamentari
Per queste donne combattono altre donne, per le quali la famiglia non è stata una prigione ma un sostegno. Ma nemmeno loro sfuggono all’angoscia, alla disperazione. Nel 2004 ad esempio, Muska, un’attivista che lavorava per le elezioni delle donne, si è suicidata dopo essere stata violentata ripetutamente dal suo autista. Oggi, in Afghanistan, le donne che si espongono nella vita pubblica, rischiano molto.
Donne parlamentari, membri del consiglio provinciale, poliziotte, giornaliste, medici, donne che lavorano per le organizzazioni internazionali, per le Ong, donne impegnate nell’affermazione dei diritti delle donne, attrici, cantanti, sono continuamente minacciate da talebani, comandanti locali fondamentalisti, dalla loro stessa comunità e anche dalle autorità governative. Molte sono state uccise ma nessuno di questi delitti è stato perseguito.

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