Retroscena di guerra e missioni militari
Silvana Pisa – Elettra Deiana
Siamo all’ennesimo voto sul rifinanziamento delle missioni militari. Un film infinito, reiterato con le modalità di sempre, l’indifferenza di sempre, le mistificazioni e bugie di sempre. E anche l’ipocrisia istituzionale di sempre.
La morte in Afghanistan del quarantesimo militare italiano, a pochi giorni da quella del trentanovesimo, è passata praticamente sotto silenzio se non fosse stato per la gaffe del ministro La Russa che, non arrivando in tempo per accogliere la salma, ha costretto l’aereo che la riportava in Italia a ritardare l’atterraggio.
La “routine della morte”legata al teatro di guerra afgano ha via via cambiato in Italia i suoi costumi di scena. Il compianto corale dedicato nei primi tempi ai morti italiani col tempo è scivolato dell’indifferente assuefazione dell’opinione pubblica e delle pubbliche istituzioni. Resta il fatto che a morire sono sempre giovani, intorno o sotto ai trent’anni. Per lo più meridionali. Ci sarebbe molto da discutere. E resta il fatto che la morte dei civili afgani ha orami raggiunto punte drammatiche:, anche qui nell’indifferenza internazionale e nei silenzi colpevoli dei comandi militari, la cui unica voce, quando c’è, è quella di giustificare o nascondere la verità dei fatti. L’ultima strage è di questo mese: a Khost, l’8 luglio. Un totale di circa 12.000 vittime civili e 8000 di militari afgani, oltre i morti delle truppe d’occupazione tra cui i nostri militari. Tutti morti per una guerra fallimentare e insensata che non si sarebbe mai dovuta fare e che bisognerebbe almeno chiudere al più presto.
E’ almeno a tutti questi morti che si deve un discorso di verità sulle ragioni che hanno portato gli Stati Uniti, paese allora detentore – così pensava Bush – dell’ordine mondiale, a scatenare quella guerra fatale tra i monti dell’Hindu Kush.
Un discorso di verità che, ancora una volta, non verrà pronunciato nelle aule del Parlamento italiano chiamato in queste settimane a votare il rifinanziamento delle missioni militari all’estero. Ipocrisia e burocrazia ne saranno il ritornello. Le intemperanze della Lega sono legate in realtà a un gioco delle parti che guarda ad interessi locali. Ci ricordiamo bene quella che per anni, in tempi non remati, fu l’adesione entusiasta dei parlamentari padanici alle guerre di Bush! Il disaccordo del Carroccio trova oggi motivo unicamente nella crisi economica, come è palesemente questione di soldi l’annunciata riduzione delle spese militari anche da parte della Casa Bianca.
E’ un circolo vizioso che mette sotto scacco il modello liberista : si fanno le guerre per gli “interessi” (risorse energetiche, mercati, industrie degli armamenti, aumento del Pil..) e si è costretti poi ad uscirne se i soldi non ci sono più. E i droni che seminano morti senza perdite di vite umane per chi li manovra da lontano costano in maniera esponenziale…
Gli Usa hanno speso per le guerre finalizzate a un capitolo genericamente denominato “terrorismo” oltre 3000 miliardi di dollari – circa quanto speso per il secondo conflitto mondiale- con un esito fallimentare. Salvo assicurarsi presidii statunitensi in tutte le zone di interesse o preoccupazione strategica.
Questione di soldi anche per la Libia: come non riconoscere che nel caso specifico è il petrolio libico, e non la violenza del dittatore Gheddafi – nota da sempre – ad avere convinto le potenze occidentali ad intervenire in uno scontro interno che aveva più i segni della guerra civile che quelli della rivolta popolare contro il regime ?
Il fatto è che le pedine di guerra vengono mosse sulla base del calcolo di interessi mentre si sottovaluta la durata degli interventi militari. E’ storia antica: la guerra genera e alimenta se stessa. L’intervento in Libia doveva durare poche settimane, quello in Afghanistan sembrava finito quasi subito, a sentire il presidente Bush. Ma mentre i calcoli sono sbagliati conseguentemente è sbagliato anche quello delle spese mentre. Come afferma il rapporto dell’università di Rhode Island: “si sopravalutano gli obiettivi politici che possono essere raggiunti con l’uso della forza bruta”.
L’unica missione che il Parlamento italiano probabilmente ridurrà di numero ( a parte quella impegnata in Kossovo che dopo anni e anni va a esaurimento) è Unifil in Libano : l’unica targata Onu; l’unica costruita con l’accordo dei due contendenti e che ha significato la fine di un conflitto ; l’unica che ha rappresentato un’interposizione di “pace” (in mancanza dei corpi civili di pace, altro tema su cui chi si nasconde dietro le finalità di pace delle missioni militari dovrebbe interrogarsi e riaprire il dibattito). A nulla vale uno sguardo geopolitico e strategico più attento su quella regione : l’ attuale crisi della Siria che si aggiunge all’annosa disputa con Israele per le alture del Golan; l’interesse dei vari paesi della zona per i giacimenti di gas recentemente scoperti nelle acque del mediterraneo di fronte al Libano; l’instabilità dello stesso Libano dopo la sentenza sull’assassinio di Hariri; per non parlare dell’irrisolta questione palestinese. Tutti elementi che fanno di quel confine una zona “calda”.
Ma la missione in Libano non è targata né Usa né Nato mentre questi sono i soggetti che il nostro Governo, il Parlamento e, duole doverlo dire ma va detto, la Presidenza della Repubblica vogliono “garantire” come garanti della legalità internazionale. Si citano continuamente da parte di rappresentanti di queste istituzioni della Repubblica gli impegni internazionali da cui deriverebbero l’immagine e il rango del nostro paese. Ma gli argomenti di questo tipo valgono a correnti alternate: valgono per le costosissime missioni militari, non valgono per altri impegni internazionali come, per esempio, per le quote che l’Italia si è impegnata a pagare – e che non paga – al Fondo Globale contro le malattie proposto dal nostro paese al G8 del 2001 o per quello che riguarda la cooperazione, progressivamente sottoposta a una forte erosione dei fondi. Né conta, evidentemente, che crisi economica, climatica, alimentare abbiano portato oggi i paesi del Corno d’Africa ad un’emergenza alimentare gravissima.
E c’è un altro capitolo su cui va fatta chiarezza contro il mantra istituzionale che dobbiamo condividere le scelte. Lo diciamo da sempre: l’appartenenza ad organizzazioni internazionali non determina di per sé automatismi di accoglimento delle decisioni che vengono prese, sia pure nelle sedi decisionali preposte. La Germania, autorevole membro della Nato, non partecipa alla guerra in Libia. Non lo fa perché sia in rotta con la Nato o in contrasto con gli Usa, lo fa per decisione sovrana, ex regole della Nato stessa..
Negli Stati uniti, gravati dal debito pubblico, c’è un ripensamento sulle dispendiose guerre “per esportare democrazia”. Potrebbe succedere anche in Italia? Ce lo auguriamo e lo auguriamo al nostro Paese. Il problema sarà di ricostruire cultura e politica di pace come segno distintivo del Paese e della sue istituzioni.
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