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Nuova vita per Manizha. Un’altra giovane afghana salvata dalla violenza.

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l’Unità – 31 marzo 2013 di Cristiana Cella

31marzo 150x150Grazie ai nostri lettori che sostengono il progetto «Vite preziose» è stata messa in salvo questa ragazza massacrata dal marito.

ABBIAMO RACCONTATO, IN FEBBRAIO, LA TERRIBILE STORIA DI QUESTA GIOVANE DONNA, INSERENDO D’URGENZA IL SUO CASO, SU RICHIESTA DI HAWCA, nel progetto «Vite Preziose».Due anni di matrimonio, passati, per la maggior parte, legata, in una cantina, picchiata, frustata, torturata dal marito, dal suocero, da tutta la famiglia.

Abbiamo chiesto aiuto ai nostri lettori e agli sponsor che già partecipano, da due anni, al progetto. La risposta è stata generosa e immediata. I contributi raccolti, nelle mani di Hawca, hanno permesso a Manizha di essere curata in un buon ospedale e la stanno aiutando nel suo cammino di ritorno alla vita. Carla Dazzi e Patrizia Fiocchetti, socie dell’associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), hanno incontrato, a Kabul, per noi, Manizha e la sua famiglia.

Una casa di mattoni, pulita, dignitosa. È qui che abita adesso Manizha, dimessa dall’ospedale, con la sua famiglia. Un rifugio sicuro, scelto da Hawca, in un quartiere protetto, innumerevoli cantieri, dove il padre ha trovato lavoro. L’indirizzo è segreto, Patrizia e Carla devono entrare in fretta, per non insospettire i vicini con la loro visita. Manizha è stata curata bene, ha ritrovato il suo bel viso, incorniciato da uno scialle nero, lo sguardo di bambina. Sembra più giovane dei suoi 20 anni. Ma è ancora sotto shock, stranita, lontana dalla realtà, spaventata.

Difficile parlare di quello che le è successo. Scoppia a piangere e continua a ripetere una domanda che non trova risposta: «Perché mi hanno fatto questo? Io non ho fatto nulla di male».

Il marito è suo cugino primo. Le violenze, raccontano, peggiorano quando il suocero si ammala di cancro. La disperazione, la rabbia, trovano un capro espiatorio. Manizha si dà da fare per curarlo ma viene accusata e punita, ogni giorno.
È stata proprio la malattia del fratello a portare il padre della ragazza a Ghazni, dove abita la famiglia. L’incontro con la figlia lo sconvolge. È irriconoscibile. Così decide di portarsela via, con una scusa. Manizha, nipote, cugina, nuora e moglie massacrata, non tornerà mai più in quella casa. Un gesto temerario, un affronto per le feroci regole tribali che se ne infischiano della legge e infierisco, soprattutto sulle donne.

 

Nessun padre può riprendersi la figlia sposata, senza il consenso del marito, nemmeno se la trova in fin di vita. La fami- glia del fratello è potente e offesa, minacciosa. La paura è palpabile, nella piccola casa. Anche la denuncia per percosse aggravate, presentata da Hawca, si è dovuta fermare di fronte al rischio, troppo alto, di ritorsioni. Bisogna lasciar calmare le acque.

La salvezza di Manizha è già un grosso risultato e la sua protezione è la priorità. Così le cose, per il momento, sono state risolte, secondo la tradizione, con un patteggiamento. Di fronte alla shura, l’assemblea degli anziani del villaggio, Manizha ha dovuto perdonare pubblicamente il marito, in cambio del divorzio, la sua libertà. La shura è una garanzia, speriamo che basti. Manizha, comunque, non esce mai di casa, accudita dai suoi.

Tra un paio di mesi, se vorrà, Hawca la trasferirà alla «casa protetta». Vivere con altre ragazze, vittime della stessa tragedia, l’aiuterà a superare il trauma. Sarà assistita dalle psicologhe, potrà andare a scuola, imparare un mestiere, contando sul sostegno che ha ricevuto dall’Italia. Poi, cercheranno di nuovo di avere giustizia, perché l’impunità non deve passare.

Ma il futuro è ancora, lontano, indistinto. Manizha non riesce ancora a vederlo. Il padre scuote la testa, sconsolato. È convinto che la figlia, ormai, sia «segnata» per sempre, condannata da quella tara che si porta addosso. Perché le colpe degli uomini violenti, qui, ricadono sulle vittime. L’assistente di Hawca le ricorda, con insistente delicatezza, che non è così, è giovane e una vita diversa l’aspetta. Le cose possono cambiare ma bisogna crederci. Non è sola. Le persone che, in Italia, la stanno aiutando, contano su di lei. I genitori annuiscono.

Si abbandonano volentieri a questa fiducia che si porta dietro la speranza. Patrizia chiede a Manizha se non le piacerebbe imparare a leggere e a scrivere. In famiglia, a parte i bambini più piccoli, che vanno a scuola, sono tutti analfabeti. E finalmente Manizha sorride. Sì, le piacerebbe davvero.

Manizha e la sua famiglia ringraziano tutti i nostri lettori per il loro fondamentale sostegno e per non averli lasciati soli nella battaglia contro la violenza. Grazie ad Albalisa, la sua sponsor, che la seguirà per tutto l’anno, ad Alessandra, che si è fatta carico delle spese ospedaliere, a Laura, Serenella, Mirka, Maria Graziella, Rosella, Nicoletta, Bruno, Mario, Annalisa, Lorenza, Ameio, che le permettono di continuare a curarsi e di essere protetta. E a tutti gli altri che ci hanno scritto e sostenuto con le loro parole.

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