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L’Afghanistan di donna coraggio

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TABLOID – Articolo di Stefania Bonacina

“Sono grata ai giornalisti italiani perché ritraggono con onestà il quadro politico del mio Paese, ma bisogna fare di più. Dieci anni di presenza della forze internazionali non hanno migliorato la situazione, come spesso si scrive” intervista a Selay Ghaffar, direttrice di Hawca.

Donne afgL’Afghanistan è un paese morfologicamente aspro che si trascina dietro un amaro destino storico fatto di un succedersi di guerre che non lascia fiato alla popolazione da oltre trent’anni. Selay Ghaffar, attivista per i diritti umani e direttrice esecutiva di Humanitarian Association for the Women & Children of Afghanistan – l’associazione umanitaria da lei fondata nel 1999 e attiva sul territorio afgano con sede a Kabul e in altre 11 province, ha 29 anni e un tono ruvido e fiero come la sua terra quando la incontriamo a Milano in occasione di una visita ufficiale nel nostro Paese. Selay sta girando l’Italia, ospite di convegni e organizzazioni umanitarie, per promuovere l’attività di Hawca e tenere alta l’attenzione della comunità internazionale sulla violenza endemica che, in percentuali imbarazzanti, si perpetra sulla popolazione femminile e sui bambini. Poco meno del 90% delle Afgane ha subito una violenza di tipo fisico, sessuale o psicologico nel corso della sua vita e l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sancisce che l’Afghanistan è il peggior paese al mondo dove vivere per le donne.

Dopo aver sottolineato come la salvaguardia della loro sicurezza e l’accesso all’istruzione e al lavoro delle donne siano l’unica via percorribile per dare una svolta al destino del suo popolo, Selay lancia un vero appello a tutti i giornalisti: “Dovete venire in Afghanistan e raccontare quello che succede davvero, la realtà. Non si può descrivere la condizione di donne e bambini visitando solo la capitale, Kabul, in due giorni, magari soggiornando in un albergo del centro. La realtà la si incontra solo viaggiando nelle province dove, lontano dalla messinscena di modernità e democrazia allestita dal governo a favore della comunità internazionale, la popolazione è molto provata e vive ai margini dei diritti umani fondamentali. In queste aree le forze di coalizione stesse non sono ben viste e questa diffidenza della popolazione talvolta aumenta il margine di azione dei gruppi terroristici che si stanno frazionando e moltiplicando sempre più”.

 

Le facciamo notare, interpretando il suo appello come un accorato j’accuse, che dall’inizio dell’occupazione sono molti i giornalisti, tra cui la nostra Maria Grazia Cutuli, che hanno perso la vita in agguati di stampo terroristico nel tentativo di raccontare quello che accade nel suo paese. Come sottolinea Reporter sans Frontiéres, a causa della corruzione, della guerriglia e dell’impunità, i giornalisti sono nel mirino non solo dei talebani, ma anche di politici locali e istituzioni religiose legate con il potere. Negli ultimi dieci anni, a una rinnovatavivacità  della stampa, anche locale (in Afghanistan sono ad oggi attive 44 reti televisive, 141 radio, 200 giornali e 8 agenzie stampa), ha fatto da contrappunto un sensibile aumento della violenza contro i giornalisti con numerosi casi di rapimenti e omicidi – Selay ne è consapevole – “Il mio è un paese dilaniato da più guerre che si combattono su più fronti, la sicurezza è un lusso che nessuno si può permettere. Ci vuole coraggio per raccontarlo.

Siamo consapevoli dell’importanza di tenere gli occhi della comunità internazionale puntati sull’Afghanistan e di quanto, a tal fine, sia essenziale il lavoro dei media. Sono molti i giornalisti, anche italiani, a cui sono grata per aver ritratto con onestà il quadro politico e la condizione della popolazione. Ma abbiamo bisogno che si faccia ancora di più e meglio. Dovete dire alla società civile cosa sta succedendo, non credere ai signori del potere. La mia e le altre associazioni umanitarie sono sempre disponibili a parlare con i giornalisti e ad accompagnare quelli che vengono nel nostro Paese dove possono vedere e ascoltare la verità.”

Chiediamo a Selay se ci può dire quale sia la verità che i media dovrebbero ritrarre e lei non fa mistero, con la tagliente sincerità che l’ha contraddistinta in tutti gli appuntamenti ufficiali cui ha partecipato in rappresentanza,talvolta unica, della società civile afghana, della sua mancanza di fiducia nel governo in carica. Condivide con un’altrattivista afghana, Malalai Joya (che ha raccontato la sua esperienza politica e la sua sfida alla corruzione del Governo in un romanzo tradotto anche in Italia, “Finché avrò voce”) la convinzione che un governo corrotto e in gran parte connivente con i “signori della guerra”, non possa che essere un tumore maligno che si propaga e infetta tutti gli organi politici del suo paese. Durante la Conferenza di Bonn (5 dicembre 2011) ha denunciato a chiare lettere la corruzione del suo governo. Aveva a disposizione tre minuti e li hausati per ribadire alcuni punti che ci ricorda brevemente. “La verità è che non c’è pace e non c’è democrazia in Afghanistan.
Dieci anni di presenza delle forze internazionali di pace non hanno eliminato il problema del terrorismo nel mio paese, al contrario lo hanno reso più complicato, meno definibile. I talebani e al-Qaeda non sono gli unici gruppi terroristici che spadroneggiano sul territorio violando i diritti umani fondamentali della popolazione. Le mafie e i gruppi terroristici legati al commercio di oppio, per esempio, intrecciano i loro traffici con gli interessi economici e le rotte che passano anche per l’Occidente e si sono rafforzati grazie a questi legami e grazie alle persistenti condizioni di prostrazione della popolazione, donne e bambini in primis. Non dico che prima la loro situazione fosse migliore, ma di certo non è migliorata come si tende talvolta a scrivere o a far pensare. Tutt’altro.

SelaySelay Ghaffar, punto di riferimento insostituibile per i giornalisti che fanno reportages in Afghanistan

Che cos’è il CISDA: Il Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afghane) è una Onlus che da anni collabora con associazioni afghane impegnate in progetti per la  difesa del diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro delle donne. Tra queste c’è anche Hawca, l’associazione diretta da Saly Ghaffar. Hawka gestisce, tra l’altro, case rifugio per donne vedove o vittime di maltrattamenti e centri assistenza legale in diverse città dell’Afghanistan. Il Cisda svolge anche un’importante attività di supporto all’informazione, accompagnando i giornalisti che vogliono avere un contatto diretto con la società civile afghana. Tra le iniziative del Cisda c’è l’osservatorio (www.osservatorioafghanistan.org) dove sono reperibili interviste e testimonianze raccolte sul campo, rapporti e articoli della stampa internazionale. Con l’Unità, grazie alla iniziativa di Cristiana Cella, giornalista e socia del Cisda, è in atto il progetto “vite
preziose” per il sostegno a distanza di donne afghane vittime di violenze.

La testimonianza di Stella Pende
La tragedia di un Paese da raccontare. Tutti i giorni.
Stella Pende è una delle giornaliste italiane che ha incontrato di recente Selay Ghaffar in Afghanistan e che si è spinta fino agli ospedali delle province, denunciando nei suoi articoli la terribile condizione in cui versano le donne. Di una di queste piccole vittime, Sara Guli, ha scritto anche nel suo libro “Confessione Reporter” (Ponte delle Grazie, 2011) come del simbolo delle torture e delle violenze cui sono costrette le bambine vendute dalle famiglie, dietro magri compensi (a volte due caproni sono una merce di scambio giudicata più che sufficiente), a uomini anziani che ne abusano sessualmente e le trattano come schiave.“Selay è un’eroina – dice Stella Pende – e insieme a lei, c’è una generazione di giovani coraggiose che lotta per i diritti delle donne, ma la loro realtà quotidiana è fatta di terrore e violenza.
D’altra parte le donne che si ribellano finiscono, se va loro bene,in prigione. A Sara è andata peggio, il suo tiranno l’ha rinchiusa in casa per due anni: quando l’ho vista non aveva un angolo di pelle intonso. Il suo corpo portava ovunque i segni delle torture e raccontava di un tentativo di addomesticarla con bruciature di sigaretta, deturpazione con l’acido, percosse. Terribile da vedere, terribile da raccontare. Per questa creatura siamo tutti, me compresa, dei mostri”.
Quanto all’appello di Selay ai giornalisti, la Pende è tranchante – “sappiamo tutti come funzionano le cose nel mondo dell’informazione e non sarò di certo io a sparare dei colleghi. Spesso abbiamo a disposizione una settimana o meno per portare a casa un’inchiesta. Spazi, tempi e costi sono già decisi prima di partire. Concordo con Selay quando fa notare che quello che accade nella capitale non è lo specchio di quanto sta succedendo in Afghanistan, ma è un’affermazione che possiamo declinare un po’ ovunque.
Posso raccontare l’Italia se mi fermo solo tre giorni a Roma ospite di qualcuno? Non credo proprio. Con la differenza che in Afghanistan si sta verificando una palese e gravissima violazione dei diritti umani e questo dovrebbe spingere i direttori, a cui mi rivolgo io, ad essere più attenti, vigili e coraggiosi. Anche la memoria è importante: non tutte le notizie si possono bruciare in un giorno, non sono tutte a scadenza come le mode. L’Afghanistan ha bisogno che si continui a raccontare e scrivere quello che succede, perché quello che accade là è terrificante. Tutti i giorni”.

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