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L’altro Afghanistan: intervista a Cristiana Cella

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di Ilaria Brusadelli e Marco Besana – Lavocedinomas
Prosegue il progetto Vite Preziose sull’Unità. Cristina Cella giornalista che ha proposto l’idea di raccontare le terribili storie di donne Afghane per poterle sostenere, ci racconta il suo Afghanistan: quello terribile e corrotto e quello coraggioso e che cerca un riscatto.

Com’è nata l’idea di questo “ponte tra la società civile e quella afghana”?
L’estate scorsa, appena tornata da Kabul, ho scritto tre  reportages sulla condizione delle donne, raccontando le loro storie. Molti lettori ci hanno scritto, alcuni di loro proponendosi di aiutarle economicamente. Con una piccola cifra mensile avrebbero potuto lasciare la casa dei loro aguzzini, costruirsi un lavoro per essere autonome e ottenere la custodia dei figli. Ne ho parlato con Concita de Gregorio che ne è stata entusiasta. Da qui è nato il progetto. Ci sono stati intoppi (i problemi causati dalla legge di Karzai) e difficoltà ma alla fine ce l’abbiamo fatta. In collaborazione con Hawca, la ONG di donne afghane che sostiene le  vittime di violenza, abbiamo raccolto una ventina di storie. Sono state pubblicate sul giornale e, adesso sono sul sito dell’Unità. Lo spazio dedicato al progetto è fisso e continuamente aggiornato. Ci sono nuove storie, il resoconto delle sponsorizzazioni, interviste e articoli, tra breve, sulla condizione delle donne e sul lavoro di Hawca. Entrare nella vita di queste donne che vivono condizioni per noi inimmaginabili, è difficile. Ma è straordinario sapere che con pochi euro possiamo contribuire a cambiare la loro vita, a dar loro una speranza di un futuro diverso. Su questi cambiamenti i lettori saranno via via informati, creando una relazione diretta con le persone che hanno deciso di aiutare. E’ un intervento preciso, mirato alla singola donna e immediato. Si possono sostenere con 50 o 25 euro mensili, anche associandosi con amici, per un periodo di un anno. Tutti i dettagli li trovate sul sito. Il progetto sta andando bene e sette donne possono adesso contare sull’aiuto dei nostri lettori. Non sono più sole ad affrontare i loro problemi.
Da Kabul continuano a mandarmi nuove storie, urgenti e terribili. Abbiamo dunque bisogno che questo ponte di solidarietà si solidifichi e coinvolga sempre più persone. L’informazione che ci aiutate a fare è quindi preziosa.

Perché raccontare le storie delle donne? In un Paese dove la donna non viene considerata o, peggio, è spesso una vittima, perché partire da loro per costruire una speranza?
Per molte ragioni.
La condizione delle donne è sempre un chiaro sintomo dello stato di salute di un paese e di una democrazia. Ascoltando le loro storie non si può barare. Se 2400 donne si suicidano ogni anno, qualcosa di sicuro non va. La “democrazia” portata in Afghanistan mostra, dopo 10 anni, il suo vero volto di facciata e di propaganda. Niente di quello che era stato promesso nel 2001 sui diritti delle donne, è stato mantenuto. Il governo afghano, sostenuto dalle truppe internazionali, fatto di criminali di guerra, trafficanti, mafiosi, tutti fondamentalisti feroci, con lo stesso credo dei talebani, non ha alcun interesse a proteggerle. Le democrazie occidentali, forze occupanti del paese, nemmeno. La giustizia, a dispetto di leggi anche buone e importanti, è inquinata dalla corruzione e dalla gestione fondamentalista. Quasi mai la Costituzione è messa in pratica. I signori della guerra, nelle loro province, fanno quello che vogliono. E i delitti, soprattutto contro le donne, non vengono puniti. Spesso i giudici sono moullah che applicano sharia e  leggi tradizionali esasperate, in 30 anni di guerra, di barbarie e di impunità. Le donne in Afghanistan sono le prime ad avere bisogno di aiuto perché la maggioranza di loro, non ha accesso a nessuno dei diritti civili fondamentali. Compito dell’informazione è fare sapere come stanno davvero le cose, a maggior ragione per il nostro paese, coinvolto nella guerra  e presente da anni sul territorio afghano.
Aiutare una donna significa impedire un suicidio, un matrimonio forzato, la prostituzione coatta o la morte per violenze subite. E’ già moltissimo ma c’è qualcosa in più, un valore aggiunto. Significa anche rompere questo cerchio di ferro che le imprigiona e aprire una nuova vita ai figli e alla famiglia stessa. Una madre libera fa un’enorme differenza. Una donna che riesce a curarsi, a istruirsi, a lavorare, a conoscere e a credere nei propri diritti, aiuterà i suoi figli a diventare persone migliori. Come ci dice una delle donne di cui abbiamo raccontato la storia, “voglio che mio figlio diventi un uomo migliore di suo padre e del mio.” Il cambiamento nella vita di una donna ha dunque un effetto moltiplicatore e, a volte, può cambiare anche la testa del marito. E’ un passo verso la formazione di una società più giusta che un giorno potrà prendere in mano le sorti dell’Afghanistan.
Con questo progetto, poi, non aiutiamo soltanto le vittime ma anche le donne coraggiose che, sostenendole in tutti i modi possibili, combattono ogni giorno, anche a rischio della propria vita, per i loro diritti. Le aiutiamo a fare il loro straordinario lavoro. Sono loro l’altro Afghanistan e la speranza del suo futuro. Appoggiarle penso sia il dovere di ogni democratico. Conoscere da vicino quello che fanno e come lo fanno, la loro ‘tempra’, mi riempie ogni volta di stupore e di stima.

Il progetto aiuterà le donne in case rifugio gestite dalla ong hawca, case minacciate recentemente dall’ennesimo tentativo del governo di controllare ogni ambito della vita della popolazione….
Hawca ha sostenuto, durante gli ultimi sei mesi, una dura battaglia, insieme alle altre Ong che si occupano di case rifugio, afghane e internazionali. L’offensiva contro gli shelters comincia già in ottobre, quando la Corte Suprema di Giustizia, stabilisce che la donna che fugge da casa per cercare rifugio nei centri di accoglienza, commette reato e deve essere arrestata. Che sia stata sottoposta a torture e abusi o sia in pericolo di vita non ha nessuna rilevanza, nonostante la Costituzione imponga allo Stato di tutelare l’integrità fisica e psichica delle donne all’interno della famiglia. Bisogna dire che l’articolo 3 della Costituzione Afghana prevede che nessuna legge dello stato possa essere contraria alla Sharia e alla religione. Chi lo decide? Sempre la Corte di Giustizia, che ha, quindi, un enorme potere sulla gestione della legge. Negli stessi mesi comincia una campagna denigratoria contro le case protette ad opera di Noorin TV, di proprietà di alcuni signori della guerra, che presenta i rifugi come luoghi di prostituzione, facendo scoppiare uno scandalo. Poi, in gennaio, il Presidente Karzai e il Consiglio dei Ministri afgano varano un decreto: entro 45 giorni dalla sua entrata in vigore, le “case rifugio” passeranno sotto il controllo del Ministero degli Affari Femminili. Le Ong che se ne occupano rischiano di essere tagliate fuori. Il pericolo contro il quale insorgono le organizzazioni dei diritti umani internazionali, è che gli shelters , unica possibilità di fuga e di assistenza per le donne, vengano chiusi o si trasformino in prigioni.
Sono nominate due commissioni, una per monitorare gli shelters, l’altra  per decidere la sorte delle vittime  che cercano rifugio, sempre sotto l’ala della Corte Suprema. Sono formate da persone che non hanno né la libertà di pensiero né la competenza per farlo. Le ‘regole di ammissione’ sono paradossali. La donna dovrà essere accompagnata da un mahram (parente maschio o marito) per evitare le imputazioni della Corte. E’ evidente che nessun marito lo farà mai, essendo, nella maggior parte dei casi, il responsabile delle violenze. Per le donne accolte ci sarà l’obbligo di sottoporsi a costanti “perizie mediche” per il controllo della loro attività sessuale. Esami  traumatici per chi ha già subito violenza, che violano la dignità e l’integrità fisica. Una logica in cui la vittima è già imputata e uno stupro equivale all’adulterio. Se poi  venisse rimandata a casa, cosa che spesso viene pretesa dalla famiglia e rifiutata dalle ONG afghane, vivrebbe nella vergogna, sconterebbe punizioni pesanti e potrebbe essere giustiziata.
I numerosi meeting a Kabul , in Europa e negli Stati Uniti, in cui le Ong hanno contrastato le leggi in questione, hanno avuto un parziale successo. Gli shelters autorizzati con una licenza speciale, tra cui quelli di Hawca, non saranno chiusi ma  lavoreranno sotto la supervisione del Ministero per gli Affari Femminili. Selay Ghaffar, presidente di Hawca e una delle voci democratiche più autorevoli del paese, in prima fila in questa battaglia, ci scrive che le Ong hanno lavorato col Ministero per cambiare le regole degli shelters. In alcuni casi sono riuscite a  far accettare il loro punto di vista. Ma, al momento, ci sono ancora articoli inaccettabili per le organizzazioni della società civile, soprattutto quelle che riguardano l’ammissione delle donne e il forzato rientro nella famiglia dalla quale sono scappate. Se il nuovo regolamento sarà accettato, entrerà in vigore tra tre mesi e tutte le case rifugio dovranno uniformarsi.
In guerra la violenza diventa purtroppo “normalità”. Ma perché, soprattutto contro le donne e all’interno della loro famiglia? Cosa c’è alla base di questa crudeltà che sembra andare oltre la guerra…
Prima di tutto bisogna dire che le donne sono vittime di violenza ovunque nel mondo, anche nei nostri civilissimi paesi europei. E’ dunque una questione che riguarda anche noi. In Afghanistan sembrano non esserci limiti alla violenza. Le storie che ci raccontano sono inimmaginabili. Ho fatto spesso anch’io questa domanda alle nostre amiche afghane. Questo è quello che mi hanno risposto. Le limitazioni alla libertà delle donne hanno certamente un’origine lontana nel paese. Fanno parte di una tradizione tribale di controllo e potere maschile. Non hanno niente a che fare con l’Islam. Queste leggi tradizionali erano, 30 anni fa, combattute e tenute a bada da una giustizia laica funzionante che prevaleva su di loro. Così molte donne erano libere di studiare, lavorare, fare politica, guidare e vestirsi come volevano.  Oggi succede il contrario. La legge è assente e le regole tribali, nutrite da 20 anni di fondamentalismo e imbarbarite dalla guerra e dalla mancanza di sicurezza, prendono il sopravvento, sostenute da chi ha il potere politico. Assassini, strupratori e violenti, non vengono puniti e questo non fa che rafforzare il loro comportamento. Anzi, il più delle volte, è la vittima a essere considerata colpevole. Colpevole di aver offeso, subendo un abuso, l’onore della famiglia. Una distorsione che diventa sempre più ‘normale’. E peggiora ogni giorno. I signori della guerra, secondo le denunce delle organizzazioni umanitarie, fanno continue pressioni sul governo perché queste leggi tribali siano trasformate in leggi dello Stato. La prevista Riconciliazione con i Talebani, non migliorerà certo le cose. Una donna ha poche probabilità di ottenere giustizia e di essere aiutata. Questa vulnerabilità la rende il capro espiatorio delle frustrazioni e delle miserie della vita di molti afghani, come povertà, droga, mancanza di lavoro, malattia ecc. Nella mentalità comune, oggi, la violenza sulle donne è quasi un diritto della famiglia in Afghanistan.

Fare cooperazione attraverso l’informazione… è possibile? Quale credi che possa – o meglio debba – essere il ruolo dell’informazione?
Spero di sì, la scommessa è questa. L’informazione deve avere il coraggio di dire la verità anche se scomoda. E, secondo me, deve raccontare la vita della gente, non solo dare notizia dei comportamenti dei grandi della terra. Andare in profondità nelle situazioni, ascoltare, guardare, accogliere. E raccontare. Raccontare esperienze e storie di vita che ci fanno capire molto di più su un paese. Sappiamo tutto sulla guerra, le azioni militari, i movimenti degli eserciti e le conferenze internazionali ma non sappiamo niente di come vive e muore la gente dell’Afghanistan. Niente che metta la loro vita accanto alla nostra. Questo è un primo passo. Creare un contatto tra le persone e non solo tra le notizie. Come nel caso del nostro progetto, la solidarietà poi viene da sola. Si tratta solo di organizzarla.

E tu, Cristiana, per cosa urleresti ¡NO MÁS!?
¡NO MÁS! violenza sulle donne, sulle bambine, sui bambini, su chi non può difendersi. ¡NO MÁS! violazioni dei diritti umani, guerre “umanitarie” e bugie che le sostengono. ¡NO MÁS! ipocrisie e connivenza. ¡NO MÁS! subire, come ci dicono le nostre amiche delle rivoluzioni arabe…

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