Intervista ad Alberto Cairo
Kabul – marzo 2011
Alberto Cairo racconta sorridendo che il giorno più brutto della settimana è stato quando uno dei nuovi impiegati informatici gli ha dato settant’anni. Lui ne ha 58, di cui 20 passati a Kabul per seguire, per incarico del Comitato della Croce Rossa Internazionale, il programma ortopedico nato nel 1988 per aiutare le vittime delle mine. Ora è un centro con quasi 340 impiegati tutti disabili (viene definita la discriminazione positiva), ex assistiti, produce in loco le protesi ed ha tagliato da poco il traguardo dei 100.000 pazienti registrati. Trapela dal viso di Cairo in effetti un po’ di stanchezza, ma il dinamismo è quello noto, così pure l’ironia con cui cerca di alleggerire il quadro a tinte foschissime dell’Afghanistan attuale. “Vedo un paese sfiduciato, che non crede più nel governo, corrotto fino al midollo, e tantomeno nell’Occidente, che dopo dieci anni è ancora in guerra e non ha certo portato affrancamento dalla povertà e tantomeno democrazia. Poi la violenza dei gruppi armati sta conoscendo il suo periodo di maggior recrudescenza e sono i civili a farne le spese”.
Quindi concorda con le forti affermazioni di Reto a fine 2010, secondo cui la situazione nel paese può essere definita la peggiore degli ultimi trent’anni e che per gli aiuti umanitari è ormai impossibile raggiungere alcuni distretti?
“ Purtroppo è così: se un’organizzazione si avvale delle forze armate allora può arrivare in un dato posto, arriva con i soldati e se ne va con i soldati, ma non viene comunque vista bene dalla maggior parte della gente delle campagne, che percepisce l’aiuto in ogni caso come qualcosa che ti viene portato con le armi e senza che si crei un reale legame, una continuità, con le persone. Chi, come noi o come Emergency, tiene le distanze da questo, non riesce più nemmeno ad avvicinarsi ai villaggi. Anche nel Nord del Paese, prima relativamente tranquillo, la proliferazione e la frammentazione dei gruppi armati ci impedisce di arrivare. Far visite o sostenere programmi è troppo pericoloso, non ci sono più garanzie: fino a qualche tempo fa si sapeva almeno con chi si doveva andare a parlare per farsi accettare: i due o tre commanders che gestivano il potere nella zona, oggi non si riesce più a fare nemmeno quello perché questi figuri cambiano di continuo e non si sa più chi è che cosa. Purtroppo ci sono zone, a sud di Kabul, dove avevamo pazienti che stavano seguendo un programma, in cui non andiamo più”.
A che cosa è dovuta, a suo parere, questa involuzione?
“Come ho detto c’è un generale malcontento: chiunque non è soddisfatto diventa un oppositore e si creano tanti piccoli gruppi, ormai difficili da identificare. La responsabilità maggiore dell’instabilità ce l’ha comunque il debole e corrotto potere centrale, con la cui indifferenza per il bene pubblico ci scontriamo anche noi. Basti pensare che non solo non fa niente per sostenere il centro, ma ci fa pagare una bolletta di energia elettrica così salata come se invece di operare gratuitamente fossimo una fabbrica a scopo di lucro. Qualche tempo fa, poi, dopo che abbiamo segnalato che si accumulava acqua in strada fuori dall’ospedale, avendo scoperto che si trattava di un tubo che perdeva, invece di intervenire, ci hanno direttamente chiuso i rubinetti…per fortuna abbiamo un pozzo…Diciamo che la disabilità non è mai una priorità”.
Com’è in generale la situazione sanitaria del paese?
“Ci sono ospedali governativi e cliniche private, ma il fatto è che chiunque può aprire qualcosa, non ci sono impegni formali da prendere. Comunque la preparazione del personale è di basso livello e soprattutto è un sistema triste, senza comprensione per i pazienti: se paghi bene, altrimenti, anche se stai male, te ne devi andare”.
Lei sta in mezzo alle persone tutti i giorni, percepisce cambiamenti nel modo di valutare la figura femminile?
“Nascere in Afghanistan e’ sempre e comunque una tragedia, per una donna. Certo, ci sono realta’ che funzionano: gli shelter, i rifugi per le donne vittime di violenza (che un provvedimento all’esame del parlamento vorrebbe far passare sotto il controllo governativo n.d.r.) alcune ONG che lavorano bene per le donne. Ma in generale le donne soffrono molto, sempre. I progressi fatti, come la formazione in diversi settori professionali vengono avversati dagli uomini che li ritengono frutto di spinte occidentali e che non c’entrano con la loro realtà. Ma la cosa peggiore deriva dal fatto che si va necessariamente verso un dialogo con i conservatori e che le prime a fare le spese di ciò saranno soprattutto le donne”.
Milena Nebbia
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