Intervista a Samia Walid
di Cristiana Cella
L’Unità – 31 ottobre 2010
Samia Walid, che fa parte di Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne afghane), è in questi giorni in Italia, invitata dal Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane. Rawa è un’organizzazione che combatte da 33 anni per un governo laico e democratico e per i diritti umani, quelli delle donne in particolare. Da Samia apprendiamo una storia, accaduta alcuni mesi fa. Una storia che continua purtroppo a ripetersi, attraverso diversi protagonisti e vittime, con devastante regolarità. La vicenda raccontata da Samia Walid è quella di Rasul, che abita in un villaggio nella zona di Herat. Rasul piange senza ritegno, le mani aperte, vuote, davanti al viso. I suoi bambini, la moglie, tutti in fila, a terra, coperti da un lenzuolo, morti. Gli aerei della Nato hanno bombardato il matrimonio di sua sorella, uccidendo 47 persone.
Danni collaterali. Capita di sbagliarsi. Gli afghani si riuniscono in molti per i matrimoni, convogli di macchine rumorose, sospette. Sparano perfino in aria per fare festa.
«Non ho mai avuto niente a che fare con i talebani, li consideravo nemici -racconta Rasul a Samia. Ma adesso andrò a combattere con loro. Che altro posso fare contro questi soldati stranieri?»
Significa che i talebani acquistano consenso tra la popolazione, Samia?
«Noi sappiamo bene di cosa sono capaci i talebani, eppure è così, purtroppo. La guerra ha alimentato odio e disperazione, ha scavato ferite profonde. Gli afghani scelgono il meno peggio, il meglio non c’è. Quando gli aerei bombardano, i “ribelli” sono già scappati al sicuro, e a morire sono i civili, soprattutto donne e bambini. Ma non è il solo motivo. Imbracciare un fucile in cambio della sopravvivenza è una scelta comune e sono esasperati dal sistema di corruzione del governo Karzai che gli rende impossibile la vita quotidiana. È il risultato paradossale di questa guerra».
Una guerra che Usa e Nato non riescono a vincere.
«O non vogliono. I talebani fanno comodo a molti. Pakistan e Arabia Saudita controllano parte del paese attraverso di loro e servono agli Usa per giustificare l’occupazione e prolungare la guerra. È una politica di inganni. Da una parte li combattono e li chiamano terroristi e lo spauracchio dei talebani è sbandierato dai media continuamente. Dall’altra fanno accordi per riportarli al governo».
Si discute di ritiro entro il 2014, di passaggio di consegne alle forze afghane che dovrebbe cominciare già l’anno prossimo. Pensa che sia un passo avanti?
Sono tutti in difficoltà di fronte a una guerra fallimentare e indifendibile, soprattutto Obama. Parlano di ritiro ma mandano altri soldati, altri mezzi, nuove bombe. Spostano le date, si contraddicono. Lo stesso inviato speciale di Washington per Afghanistan e Pakistan, Holbrooke, ha detto che l’impegno continuerà anche oltre il 2014.
Sappiamo che gli americani costruiscono basi militari e caserme. Credo che vogliano restare per molto. Ci sono in ballo il controllo di un’area strategica e enormi business come le armi, gli aiuti internazionali, la droga. E poi quando mai un esercito e una polizia corrotti, al servizio di potenti criminali, potranno garantire la sicurezza? È a loro che passeranno le consegne, a un governo fantoccio e instabile?»
La sua organizzazione, Rawa, sostiene che le truppe Usa e Nato devono lasciare l’Afghanistan.
La popolazione afghana cosa ne pensa?
«L’ostilità verso l’occupazione continua a crescere. Ci ha portato morti, mutilati, bombardamenti, attentati talebani. Violenza e ingiustizia, nient’altro. Le speranze del 2001 sono durate poco. Come si può chiamare pace la devastazione delle cluster bombs (bombe a grappolo)?
O costruire una democrazia con una coalizione di dittatori e liberare le donne mettendo al potere dei fondamentalisti ferocemente misogini?
O aspettarsi che gente responsabile di pulizia etnica, massacri, violenze contro le donne, applichi la Costituzione? È per questo che sono spesi i vostri soldi in armamenti e che muoiono i vostri soldati. Ne vale la pena?»
La popolazione fa differenza tra i soldati italiani e quelli delle altre nazioni presenti in Afghanistan?
«Perché dovrebbe? Fanno parte della coalizione e si comportano come gli altri. Non avete mandato in Afghanistan medici o insegnanti, avete mandato forze speciali, e armi sofisticate. E i soldati fanno la guerra, uccidono e muoiono.
Vittime anche loro di una politica e di una guerra sbagliata».
Dunque i signori della guerra sono potenti, come i talebani. Se le truppe se ne andassero riprenderebbero a combattersi tra loro, ognuno con i suoi finanziatori esteri. È verosimile, no?
«Non pensiamo certo che sarebbe tutto risolto. In alcune regioni la guerra civile c’è già. Il ritiro che chiediamo non significa abbandonare il paese a se stesso e ai fondamentalisti che ci hanno imposto. Significa trovare soluzioni politiche, radicalmente diverse dalla guerra e dall’occupazione. Le nazioni che sono presenti devono risolvere il problema afghano».
Come?
«La popolazione afghana, che non è mai interpellata nelle decisioni, chiede che vengano rimossi dal governo criminali di guerra, talebani, mafiosi, trafficanti di droga. Che le nazioni occidentali smettano di sostenerli e appoggino invece la società civile e democratica.
Che i milioni di dollari che arrivano in Afghanistan non ingrassino i signori della guerra e il sistema di corruzione che essi gestiscono, ma servano a ricostruire il paese, all’istruzione, alla giustizia.
Che si facciano delle elezioni davvero libere. Solo invertendo la rotta qualcosa potrebbe cambiare in Afghanistan».
Anche la condizione delle donne?
«Non c’è altra strada. La violenza contro le donne continua ad aumentare. Non c’è nessuna giustizia, le loro vite sono annientate dalle stesse leggi oscurantiste di talebani e signori della guerra. Ma non è colpa della cultura afghana, come spesso si dice. Gli afghani sono poveri, ignoranti forse, ma non sono fondamentalisti.
Questa ideologia esasperata è stata esportata dall’Arabia, dai wahabiti. Prima degli anni ottanta non era conosciuta da noi. Le donne godevano dei loro diritti e la giustizia laica le proteggeva da regole tribali arcaiche. Il fondamentalismo è un sistema di controllo politico e patriarcale.
Si è imposto in un paese devastato grazie al sostegno di altri stati tra cui gli Stati Uniti. Prima hanno armato i mujaheddin integralisti contro i russi, poi i talebani, adesso entrambi. Se non cambierà la situazione politica, la condizione delle donne non farà che peggiorare».
Perché tutto questo non viene nemmeno ipotizzato?
«Il governo statunitense ha bisogno di questa gente per controllare il paese e i propri interessi. Un Afghanistan democratico e libero sarebbe molto più difficile da manovrare».
In chi sperate allora per questo cambiamento?
«Prima di tutto nel nostro popolo, nei democratici, ma abbiamo fiducia nelle società civili occidentali che ci sostengono con generosità e nella pressione che possono fare sui rispettivi governi.
La gente vuole sapere la verità su questa guerra, ci invitano per questo, ma è sempre più difficile partire. Ho dovuto superare infiniti ostacoli burocratici per ottenere un visto per l’Italia».
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