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Donne che rimangono detenute

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Kabul 2 dicembre 2010 – Zarghoona ha scontato i suoi  tre mesi di prigione nella provincia di Kandahar – Afghanistan del sud – ma non ha avuto l’autorizzazione a tornare a casa perché nessun parente uomo si è fatto avanti per garantire sull’eventualità di un’altra fuga.

“ Tutta la mia famiglia mi ha abbandonata. Per loro sono morta, ma le autorità penitenziarie mi hanno ribadito che mi rilasceranno solo ad un parente uomo” ha detto la donna ad IRIN nel corso di una intervista telefonica che ha avuto luogo grazie alla mediazione di un ufficiale che preferisce rimanere anonimo.

Costretta a sposare un uomo vecchio e mentalmente instabile quando aveva appena 15 anni, Zarghoona ha subito violenze sessuali e percosse finché non ha deciso di scappare di casa. I matrimoni cosiddetti “precoci” sono un luogo comune in un paese dove, secondo le agenzie d’aiuto, il 43% delle donne si sposa prima del 18° anno d’età.

“Preferisco morire piuttosto che stare accanto a quell’uomo brutale” ha detto, aggiungendo che suo marito e i suoi suoceri la picchiavano in continuazione perché non riusciva a rimanere incinta.

Attiviste per i diritti delle donne e funzionari del governo hanno confermato che in molti casi non si è potuto procedere al rilascio di detenute donne proprio a causa dell’assenza di un parente maschio che facesse da garante per loro.

“Questo è illegale ma accade abbastanza spesso in Afghanistan” ha dichiarato Suraya Subhrang, esponente per i diritti  delle donne della Commissione Indipendente per i Diritti Umani –AIHRC a Kabul, “cosa dovrebbero fare le donne senza un “maharam” (parente stretto – vale a dire un fratello, un padre, un figlio o un marito)? Dovrebbero mettere fine alle loro vite perché non hanno un uomo che si prenda cura di loro?” .

Golam Dastgheer Mayar, capo del principale carcere di Kandahar, ha dichiarato che non era a conoscenza del caso di Zarghoona ed ha aggiunto anche che alcune prigioniere donne scelgono di rimanere in galera una volta scontata la pena perché “non hanno alcun posto dove andare”.

 

Giustizia parziale?

Secondo gruppi di attivisti, mentre da un lato la violenza di genere è pervasiva, dall’altro le donne sono profondamente limitate nella possibilità di sfuggire a norme e tradizioni che stabiliscono l’inferiorità dello status femminile.

L’unità per i diritti umani della missione delle NU in Afghanistan – UNAMA – ha denunciato nel 2009 che le donne si vedono negati i loro principali diritti umani e rischiano di subire ulteriori violenze se cercano giustizia per i crimini perpetrati nei loro confronti.

Secondo le agenzie d’aiuti, oltre l’80% delle donne afghane, soprattutto nelle aree rurali, sono analfabete e hanno una coscienza scarsissima se non nulla dei loro diritti umani, compreso il diritto ad un processo equo.

Denunciare alla polizia o a un procuratore un caso è considerato dalle donne assolutamente inutile in quanto le accuse, di solito, non vengono prese sul serio, non sono correttamente riportate e non sortiscono alcuna azione legale. “Ultimamente, le autorità non sono disposte o non sono in grado di provvedere alle donne a rischio con qualche forma di protezione che garantisca la loro sicurezza” dice il rapporto di UNAMA.

“Le donne subiscono discriminazioni nei tribunali” dice Wazhma Frogh dall’Afghan Women Network –AWN, un consorzio di organizzazioni non governative e singoli individui che lavora sulle questioni di genere.

Tuttavia, i funzionari giudiziari respingono le critiche. “Queste affermazioni non hanno un fondamento reale. Le donne nei processi sono trattate in modo equo come gli uomini” ha raccontato a IRIN Bahawddin Baha, capo della divisione penale della Corte Suprema, aggiungendo che le corti operano nel rispetto della giurisprudenza islamica.

Secondo il rapporto 2007 dello sviluppo umano nazionale in Afghanistan, l’accesso alle istituzioni di giustizia formale in Afghanistan è limitato, in particolar modo nelle aree rurali, e oltre l’80% della popolazione si basa sui meccanismi tradizionali di risoluzione delle controversie, soprattutto perché il sistema di giustizia formale è considerato inefficace e corrotto.

La fuga: un crimine

Non esiste una guida chiara nel codice penale afghano su come inquadrare i casi di donne e ragazze che scappano da casa, dicono le fonti ufficiali, anche se la polizia le arresta e i procuratori intentano azioni contro di loro.

“Il nostro sistema legale si basa sulla Sharia secondo la quale la fuga è un peccato e, a seconda delle caratteristiche della persona, potrebbero essere previste differenti sanzioni minori come una condanna a 2-3 mesi” dice la Corte Suprema di Baha.
Gli attivisti per i diritti umani hanno denunciato questa situazione e sostengono che le donne e le ragazze che fuggono dalla violenza domestica non possono essere trattate come delinquenti.

Ci sono varie e a volte opposte interpretazioni della Sharia sulla fuga, ha detto Frogh dell’Afghan Women Network.

“Trattare la fuga come un crimine è legato più alla cultura patriarcale predominante nel paese che all’Islam” ha sostenuto aggiugendo che, nella maggior parte dei casi, scappare di casa è stata l’ultima chance delle donne per salvare la propria vita.

Esclusione

La vergogna è parte del calvario affrontato dalle donne detenute, spesso indipendentemente dall’essere vittima o autrice di un reato.

“Le persone preferiscono che le loro donne muoiano piuttosto che abbiano un’esperienza di galera”  dice Haji Mir Lalai, un anziano tribale di Kandahar.

“Le famiglie, solitamente, non accettano più in casa donne o giovani rilasciate da prigione” sostiene Zubaida Payenda, direttrice del Dipartimento per gli Affari Femminili a Kandahar (KWAD), aggiungendo che le cicatrici sociali, economiche e psicologiche della reclusione rimangono  per molto tempo dopo il rilascio.

Molte donne abbandonate dalle loro famiglie o per fuggire  alla violenza domestica, trovano protezione presso gli shelter gestiti da alcune ONG grazie a donazioni private.  Secondo l’AIHRC sono 14 le case protette disseminate in varie regioni del paese e ciascuna ospita una decina di donne alla ricerca di una nuova vita.

“Ma nella provincia di Kandahar non esiste alcuna struttura d’accoglienza, per questa ragione le detenute che non hanno il sostegno familiare hanno problemi ad essere rilasciate come altre che subiscono violenza domestica non hanno un posto dove andare”.

Vogliamo costruire uno shelter a Kandahar ma abbiamo bisogno di fondi e di supporto” dice Payenda del KWAD.

(IRIN – Humanitarian News and Analysis – www.irinnews.org)

Traduzione di Simona Cataldi

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