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Donne afghane e l’assenza di giustizia

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Laspro numero 22 – Patrizia Fiocchetti

globalist dicembre 2012 150x150Tufeh è poco più di una bambina. Ha tra i 12 e i 14 anni, il sistema anagrafico non ha uffici nei villaggi rurali afgani e si può solo ragionare per approssimazione, guardandola seduta sul duro pavimento di una cella di Farah, una delle province più povere del paese.

Ha lo sguardo fermo, nessuna luce illumina i grandi occhi castani, da tempo Tufeh è uscita dal mondo magico dell’infanzia. “La mia famiglia mi ha dato in sposa ad un uomo molto più vecchio di me. – nella voce non ci sono inflessioni che tradiscano il suo stato d’animo – Era un drogato, cattivo. Mi picchiava, tutti i giorni senza un motivo.
Mi prendeva con la violenza, e io non potevo difendermi. Nessuno voleva difendermi”. Fa una pausa. Solo i pugni stretti all’altezza del grembo, abbandonati sul ch’adori bianco a fiori che le ricopre l’acerbo corpo, mostrano una rabbia sorda e nascosta nel profondo della sua anima.

“Non ne potevo più. E allora una mattina, mentre dormiva senza coscienza sul letto l’ho ucciso”. Poche frasi, quasi uno schizzo che riassume in pochi tratti la sua breve e dura esistenza. Era cosciente Tufeh di quali sarebbero state le conseguenze del suo gesto? Sapeva che sarebbe diventata di fronte alla legge, ma anche per la comunità di appartenenza un’assassina? Forse, oppure no.

Ma non è questo il punto, almeno non per una donna afgana.  “Dovremmo sempre ricordare che quando una donna in Afghanistan è oggetto di un crimine, perché la violenza contro le donne è innanzitutto un crimine, molto difficilmente avrà giustizia” – Selay Ghaffar fondatrice e presidente di Hawca, l’associazione che gestisce rifugi per donne maltrattate a Kabul e in altre province del paese, sembra posseduta da un fuoco sacro. “I criminali, stupratori, assassini e violenti girano liberi, protetti da persone potenti o comunque non perseguiti poiché qualsiasi crimine contro una donna può essere in qualche modo giustificato. Dopo 11 anni di occupazione straniera, i rapporti che vengono redatti dalla maggiori agenzie internazionali, descrivono condizioni aberranti per la sicurezza della donna e peggiorate per quanto al rispetto dei loro più elementari diritti. Come quello alla vita”.

Per noi donne occidentali è un’affermazione pesante, praticamente inconcepibile. Ma che risponde alla realtà.  Quando nel campo profughi degli Helmandi, situato poco lontano dal caotico centro di Kabul, incontriamo le famiglie fuggite dai bombardamenti a stelle e strisce e dai combattimenti tra truppe anglo-americane e talebani che ormai da un decennio affliggono le province meridionali dell’Afghanistan come Helmand, appunto e la tristemente famosa Kahdahar, tocchiamo con mano la dura legge che governa l’esistenza di molte donne di questo paese. Invisibili nei loro ch’adori, chiuse in fatiscenti costruzioni di fango e lamiera, nascoste allo sguardo maschile ma anche impedite al confronto con noi, donne europee, i membri femminili di questi nuclei famigliari contano nella misura in cui l’uomo della famiglia, padre, fratello o marito determina.

 

“Nelle città almeno le donne, per quanto si scontrino con l’assenza di sicurezza, hanno preso coscienza dei propri diritti sociali. Ma nelle zone rurali dove è concentrato il 75% della popolazione, le donne non hanno neanche consapevolezza che la loro vita fisica sia un diritto personale imprescindibile e non proprietà di un uomo della famiglia”. Osaman Basir è la giovanissima responsabile della sezione femminile del partito Hambastaghi, uno dei pochissimi non finanziati da cancellerie straniere o legati a uno dei vari signori della guerra afgani. “Sono dei veri e propri oggetti di scambio, moneta usata dal clan di appartenenza per sanare dissidi. Esistono nel rispetto di quelle che sono le norme tribali consuetudinarie e sono convinte, perché nessuno gli ha mai insegnato il contrario, che sia nel pieno diritto del padre o del fratello togliergli la vita per una questione d’onore”.

Eppure dal 2009 esiste una legge in Afghanistan, la legge per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne (EVAW) redatta con il supporto di legislatori occidentali e approvata dal governo afgano. A scorrere i vari articoli che la compongono, per quanto perfettibile, la legge appare consona per la tipologia di crimini che persegue e degli strumenti che contempla per la sua applicazione da parte del potere giudiziario, anche in accordo con i dettami dell’Islam. Ma dal 2009 ad oggi, come denuncia l’ultimo rapporto dell’Unama, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’Afghanistan, non solo non si sono visti gli effetti positivi di queste norme a difesa delle donne, ma si è riscontrato che ad essa si ricorre pochissimo, preferendole il codice di procedura penale, più agevole e più vicino al senso comune dei giudici afgani, mentre giace ignorata in molte province.

La giustizia per le donne in questo paese non esiste, e molte ne sono a tal punto consapevoli che se subiscono un sopruso, soprattutto uno stupro, preferiscono uccidersi piuttosto che denunciarlo. Le più coraggiose fuggono dal loro villaggio, dalla loro famiglia che comunque ormai le considera merce deteriorata e, se sono fortunate, riescono a riparare in uno dei rifugi per donne maltrattate dove cercano innanzitutto protezione e poi la possibilità di una nuova vita. Il dolore che emana da queste donne è così palpabile, anche se discreto quasi introspettivo, che quando parlano di ciò che gli è accaduto sembra che descrivano una disgrazia successa ad un’altra. F. viene dalla provincia settentrionale di Baglan.

Avrà a malapena 35 anni di cui due trascorsi a Kabul sotto falso nome. È stata aiutata a fuggire dalle coraggiose donne di Rawa, Rivoluzionaria associazione femminile che ha visto luce negli anni 70 e che terrorizza a tal punto le corrotte autorità politiche afgane con le proprie attività volte alla presa di coscienza dei propri diritti individuali delle donne e dei giovani, che nonostante non persegua alcuna forma di lotta armata, è stata messa all’indice e costretta ad operare in clandestinità. Vive in una misera costruzione in uno dei quartieri più poveri della capitale, ma qui è al sicuro.

Ci accoglie nell’unica stanza in cui si compone l’abitazione che abita con il figlio più piccolo, mentre la figlia quindicenne è ospite di un orfanotrofio dove sta completando la propria istruzione superiore.  “Il signore della guerra che comandava il villaggio aveva messo gli occhi su mia figlia di appena 13 anni. L’aveva notata mentre andava a scuola. E lui la voleva. Mandò due sue uomini a casa mia a pretenderla ma io rifiutai. Approfittavano del fatto che essendo vedova non avevo un uomo che mi difendesse. Lui non si arrese. Mi minacciò. Disse che le davo mia figlia con le buone oppure avrebbe ucciso mio figlio.

Ho chiesto aiuto a mio suocero, e lui mi ha risposto di cedergliela. Mi sono rivolta alla polizia locale ma quelli si sono messi a ridere e mi hanno gridato che mica potevano montare la guardia davanti alla mia porta 24 ore su 24”. La voce è un sussurro, si fa fatica a sentirla. Ma il volto rimane impassibile. “I suoi uomini mi avevano dato un ultimatum di 72 ore per consegnargliela.

L’ultima notte, i miei figli dormivano. Io ero lacerata, non sapevo cosa fare. Poi, non so, è scattato qualcosa dentro di me. Ho visto la latta di benzina in un angolo e me la sono versata sul corpo. Poi il fuoco”. Autoimmolazione pratica di suicidio, terribile e cruenta, a cui ricorrono moltissime donne afgane. “Mia figlia, proprio lei mi ha soccorso. Ha chiamato mio suocero, mi hanno trasportata in ospedale.

Mi sono salvata, e loro mi hanno aiutato a fuggire con i miei figli”. Essere donna in Afghanistan è una sfida quotidiana. Si è l’ultimo anello della catena sociale e l’insicurezza permea ogni istante della propria vita. E’ una sensazione così forte che anche noi occidentali non riusciamo a rimanere immuni e vi dobbiamo fare i conti.
Ed è per questo che appare ancora più significativo il fatto che la maggior parte delle organizzazioni che in Afghanistan si fanno portavoce di ingiustizie e angherie e che conducono un lavoro instancabile in favore delle fasce più colpite dall’attuale esasperata situazione socio- politica del paese, siano coordinate proprio da donne. Giovani, non più di 30 anni, figlie della guerra e  cresciute nei campi profughi pakistani e iraniani, sono decise, istruite e coraggiose.

E in Afghanistan per una donna quando si parla di coraggio non è un eufemismo: solo uscire di casa e recarsi a scuola o al lavoro è una sfida quotidiana visto che il pericolo si annida ad ogni angolo. Belquis Roshan è una senatrice eletta nella provincia di Farah. Alta e imponente, dalla risata franca e coinvolgente, è una delle pochissime voci fuori dal coro che si alzano all’interno del Parlamento, i cui scranni per lo più sono occupati da uomini, ma anche donne, corrotti, al soldo dei cartelli della droga, se non li gestiscono loro stessi, o legati ai vari jihadisti che hanno distrutto e diviso il paese ma di cui detengono ancora il potere grazie anche ai buoni uffici delle varie cancellerie occidentali, americani in testa. “Si accusa il sottosviluppo culturale soprattutto nelle regioni dove vige il pashtunwali (codice consuetudinario tribale che regola la vita comunitaria NdA).

Ma il vero ostacolo risiede al vertice, nel governo Karzai, nel Parlamento dove si continua ad impedire alle donne di occupare posizioni di rilievo  e a bloccare qualsiasi legge in loro favore. Come si può pensare che se queste sono le indicazioni date da chi gestisce il potere decisionale, la base si comporti diversamente? Piuttosto, tale atteggiamento non fa altro che confermare alla gente semplice i parametri che regolano i rapporti consuetudinari più conservativi e reazionari contro le donne”.

Sembra quasi assurdo parlare di concetti quali “parità” e “libertà di scelta” mentre ci si confronta con la realtà di estrema insicurezza in cui si muovono le donne di questo paese. Ma Belquis ride e non si tira indietro. Perché, comunque, l’obiettivo seppur lontano non è cambiato. “Si potrà sostenere di aver raggiunto un reale livello di parità e di libertà solo quando le donne potranno uscire di casa senza correre il rischio di essere aggredite. Quando avranno il diritto di scegliere la professione che più gli piace. Ma più importante,  quando potranno decidere liberamente il proprio stile di vita”. Tutto ciò appare irraggiungibile, nascosto dietro la cortina di polvere che avvolge la capitale soffocandola.

In 11 anni di occupazione nonostante i proclami della prima ora che dovevano veder impegnate le truppe combattenti occidentali in Afghanistan, tra le altre cose, a liberare le donne dall’oscurantismo talebano, costituisce un’amara beffa la constatazione che la situazione non sembra poi tanto mutata da allora. Milioni di dollari sono confluiti in Afghanistan per la ricostruzione, e molti di questi dovevano servire ad aiutare tutti quei progetti che favorivano lo sviluppo della condizione femminile.

Un fiume di denaro deviato in centinaia di rivoli finiti nelle tasche dei soliti noti guerrafondai che hanno pensato bene di arricchire loro stessi e le proprie milizie e di armarsi per la futura resa dei conti etnica, che si scatenerà in tutta la sua potenza devastante non appena le truppe di occupazione si saranno ritirate, basi militari a parte.  Non si può veramente credere di cambiare il corso storico di un paese non conoscendolo, ignorandone l’evoluzione storico-culturale e soprattutto non dando spazio alle voci democratiche che comunque, in Afghanistan esistono e respirano anche se a fatica.

Le armi sono servite solo per imporre la scaletta degli interessi internazionali e i milioni di dollari a blandire coloro che più facilmente avrebbero permesso di metterli in atto, appunto i criminali che si sono spartiti il potere effettivo. Tutto questo a scapito di una  popolazione che non ha ottenuto nulla di tangibile dal cambio della guardia raggiunto attraverso i bombardamenti del 2001. Le donne sono coloro che subiscono di più pagando un doppio prezzo, socio-economico e culturale. La speranza? Si trova nelle mani delle giovani che non demordono e soprattutto non si piegano.

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