Diritti delle donne: il fallimento della giustizia afghana – Da L’Unità del 6 marzo 2011
L’Occidente aveva promesso di cancellare l’inferno talebano, ma a 10 anni dall’intervento militare, la violenza, gli stupri e i matrimoni forzati delle bambine sono una realtà diffusa
Di Cristiana Cella – L’Unità – 6 marzo 2011
L’ANALISI
L’Afghanistan, nel 2003, è il primo Paese musulmano a ratificare il Cedaw, (Convenzione per l’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne) con il relativo obbligo di adottare tutte le misure legali necessarie.
Del resto l’Occidente aveva promesso di liberare le donne dalla prigione talebana e dal burka, con altisonanti dichiarazioni. Il principio di eguaglianza tra uomini e donne di fronte alla legge viene sancito dalla Costituzione, articolo 22, varata, nel 2004, da un parlamento composto per il 25% di donne. Nel Piano d’Azione Nazionale per le Donne Afgane, il Ministero degli Affari Femminili sottolinea la necessità di riformare le leggi tradizionali sulla famiglia che penalizzano le donne. La violenza e i matrimoni di bambine sono criminalizzati. Se la Costituzione fosse applicata, assistita datante buone intenzioni, sarebbe un passo avanti, e diventa la bandiera della «democrazia» portata con le bombe.
A 10 anni dall’occupazione e a 7 dall’entrata in vigore della Costituzione, le condizioni di vita di donne e bambini sono allarmanti e la necessità di rifugi enorme. La violenza domestica, le molestie sessuali e lo stupro, quasi sempre impuniti, sono endemici. I matrimoni forzati anche di bambine, sono pratica diffusa, fino all’80%. Le donne sono merce di scambio, senza diritti.
La maggioranza delle carcerate scontano pene per «delitti morali», 2 milioni di donne soffrono di depressione e 2300, ogni anno, si suicidano. Perché questo disastroso fallimento della giustizia? Prima di tutto perché ad applicarla è un governo, instaurato e difeso da Usa e Nato, formato, in maggioranza, da potenti fondamentalisti che condividono lo stesso credo dei talebani, spadroneggiano in tutte le province con le loro armi e fanno pressioni continue, denunciano i difensori dei diritti umani, per trasformare in legge il sistema di «giustizia informale», cioè tribale, feroce contro le donne.
Ma il vizio è già all’interno della Costituzione, nell’articolo 3: «Nessuna legge può essere in contrasto con il credo e le disposizioni della sacra religione dell’ Islam».
La Sharia,non nominata, è dunque fondamento del diritto e, in nessun caso, la Costituzione può ignorarne i principi. Interpretazione e applicazione sono decisi dalla Suprema Corte di Giustizia, in mano a mullah conservatori che confondono la religione con la tradizione patriarcale, divenuta più forte dopo 20 anni di fondamentalismo e di impunità.
La Corte celebra processi a porte chiuse, arresta giornalisti democratici, emette condanne a morte, anche lapidazioni, rimette in vigore divieti dell’epoca talebana, e considera un crimine, per le donne, fuggire dalla violenza domestica o da un matrimonio forzato.
Il 26 ottobre del 2010 colpisce direttamente gli shelter, le case rifugio per le donne che hanno subito violenza, trasformando in reato la loro richiesta di protezione.
Proprio all’Italia è stato affidato il compito di riformare il sistema giudiziario afghano ma il risultato
sembra solo di facciata, con scarsissima ricaduta sui diritti fondamentali delle persone, soprattutto delle donne, sempre più penalizzate dalle leggi varate.
I governi democratici, tra cui il nostro, presenti con le loro truppe in Afghanistan, tacciono. Per disinteresse, calcolo politico o ipocrisia. Sarebbe ora che questa colpevole condiscendenza avesse fine.
Il dramma: la maggioranza delle carcerate sconta pene per «delitti morali»
La Sharia: non è nominata nella Costituzione ma è fondamento del diritto.
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